La dominazione razziale in Francia
Intervista di Sadri Khiari realizzata da Danièle Obono.
Sadri Khiari, militante tunisino esiliato in Francia fin dagli inizi del 2003, è uno dei membri fondatori del Movimento degli Indigeni della Repubblica, di cui è, attualmente uno dei dirigenti. Tra le altre opere ha pubblicato Pour une politique de la racaille.Immigré-e-s. indigene set Jeunes de banlieue, éditions Textuelle, Paris 2006 et La contre-révolution coloniale en France de De Gaulle à Sarkozy, éditions La Fabrique, Paris, 2009.
Il Movimento degli Indigeni della Repubblica ( MIR ) è nato in seguito all’appello lanciato nel gennaio del 2005, intitolato “ Noi siamo gli indigeni[1] della Repubblica“ che era stato firmato da molte migliaia di persone e numerose associazioni. Dopo, il MIR tenta di riunire e organizzare al suo interno i militanti provenienti dalle immigrazioni coloniali e dai quartieri popolari nella prospettiva di costituire uno strumento di lotta politica autonoma, sulla base di una problematica fondata sulle questioni del razzismo, del colonialismo e dell’imperialismo. Egli si è trasformato in partito (Il Partito degli Indigeni della Repubblica) con l’intendimento di presentarsi in campagna elettorale. Il portavoce del PIR è Houria Bouteldja.
1 ) L’appello degli Indigeni che aveva suscitato varie controversie, ha compiuto più di quattro anni; il Movimento degli Indigeni della Repubblica ( MIR ) è stato fondato qualche mese più tardi. A che punto siete oggi del vostro percorso, sopratutto sul progetto di fondare un “ partito politico degli indigeni “?
L’appello che abbiamo lanciato nel gennaio 2005 è il documento su cui si fonda il MIR e rappresenta il nostro riferimento principale. In seguito abbiamo precisato alcune tematiche, sviluppando e avviando un vero progetto politico positivo, che non sia solo una contestazione ma possa essere anche uno strumento di ricostruzione politica del paese in cui noi viviamo. Questo ci ha portato ad adottare un altro documento importante intitolato “ Chi siamo noi?”, a concepire delle proposte alla vigilia delle ultime elezioni presidenziali.( “ Elezioni: le esigenze del MIR “, l’ Indigéne de la Republique,”n.3, gennaio 2007 ) e a prendere numerosi posizioni su differenti avvenimenti politici che sono stati occasioni per precisare e allargare le nostre vedute. Senza dimenticare i numerosi contributi individuali dei nostri militanti o di alcuni dei nostri amici. La maggior parte di questi testi sono disponibili sul nostro sito. Stando così le cose non ci sono miracoli. Un vero programma ed una strategia, tutte cose indispensabili per coloro che non fanno i politicanti, sono opere collettive, non metabolizzate in biblioteca. Bisogna inserirsi ancora nel contesto sociale reale, confrontarsi continuamente con la realtà dei conflitti, provare, tentare, sperimentare orientamenti, e talvolta, sgolarsi; è necessario anche tentare un dialogo continuo con coloro che non condividono i nostri punti di vista; è necessario istituire un organo di raccolta, di sedimentazione e di sintesi di questi nostri molteplici sforzi. In breve è indispensabile un partito!
Per il momento noi abbiamo un quadro di problemi che permette di concepire delle soluzioni, ed un minimo di esperienza e una volontà determinata di pensare per noi stessi. Certamente più vicini a Martin Luther King che a Obama, anche noi abbiamo un sogno. Il sogno di un mondo senza imperialismo, senza colonialismo, senza razzismo. Noi abbiamo un’ambizione collettiva come eredi della colonizzazione, sia come emigrati che come figli di emigrati, l’ambizione di partecipare attivamente al governo della Francia, di partecipare alle scelte politiche, d’influire sul suo presente e sul suo futuro, partendo dalla base fino alle massime leve decisionali dello Stato. In breve, noi non dobbiamo più rimanere ai margini della politica, non vogliamo più che si decida per noi, vogliamo partecipare al potere per orientare questo paese ad una politica decoloniale. Il progetto non è quello di costituire una lobby, ma un movimento di mobilitazione popolare. La partecipazione alle leve del potere è, in effetti, un inganno se non si sostiene su di un vero rapporto di forza ancorato alla resistenza. In altri termini non siamo qui né per fare pressione, né per piagnucolare, né per indignarci, né unicamente per protestare, noi non abbiamo il complesso di coloro che pensano di non avere alcun diritto sulla Francia, né il sentimento di impotenza di coloro che si bloccano per paura del “ recupero” o che si considerano come vittime di qualsiasi complotto machiavellico fomentato contro di noi da forze occulte. Non siamo nemmeno degli isolazionisti disperati, per i quali tutto è perso, e che tessono con rancore le loro trame o il loro “ entre-nous”, escludendo se stessi dalla politica. L’autonomia non è il separatismo; essa è un rapporto di forza. Non siamo massimalisti né catastrofisti, ma non faremo “ la danza del ventre” per sedurre. Siamo coscienti però che la realizzazione dei nostri sogni non avverrà all’improvviso, ci vorranno numerose battaglie, vari passaggi e riforme intermedie, nonché un’evoluzione nei rapporti con le energie filosofiche, morali, culturali e politiche. Sappiamo che l’emergenza di una maggioranza politica de coloniale implicherà profonde ricomposizioni del quadro politico che si dovrà radicare in larghi strati popolari nonostante le contraddizioni che travagliano loro e noi. Ma noi siamo convinti che un tale cambiamento non si potrà realizzare senza la nostra volontà indipendente, vale a dire senza il nostro partito, un partito che rappresenti l’insieme delle popolazioni indigenizzate, un partito nel quale noi saremo artefici del nostro pensiero, delle nostre priorità politiche, delle nostre alleanze, della nostra “ agenda “ come si dice oggi. E’ a questa “ costruzione “ che noi stiamo lavorando dopo la marcia degli Indigeni dell’8 maggio 2008, il cui primo proclama era “costruiamo il nostro partito”.
In una forma e nell’altra ci proveremo, da questo stesso punto di vista, a presentarci alle principali competizioni elettorali che verranno. Non saremo pronti alle regionali, ma alle comunali, in certi comuni, senza dubbio, bisognerà fare i conti anche con noi. Ci orienteremo verso la costituzione di liste indigene autonome laddove sarà possibile. Ci stiamo organizzando anche per le legislative e le presidenziali.
2 ) Questa scelta di costruire un partito “ proprio “ suona in parte come una sconfessione delle organizzazioni politiche di sinistra e di estrema sinistra verso le quali da lungo tempo si sono rivolte le popolazioni di immigrati ed i loro figli. Come spieghi che voi non avete trovato un vostro spazio ? O può essere questo modo di pensare la politica, dall’“ integrazione “ ai partiti esistenti, ancora troppo dogmatica e marcata di una certa accettazione del mondo “ bianco” ?’.
Io ho già dato certi elementi di risposta, ma per replicare più esplicitamente alla tua domanda, dirò subito che dall’insieme del sistema politico i “ non bianchi “ sono esclusi e che questa esclusione è la principale incarnazione del neo-indigenato.Aggiungo che, se questa esclusione conferma la minoranza politica dei ceti economicamente svantaggiati, non si riduce a questo e procede in un’altra logica che è quella, giustamente analizzata da noi come razziale. Per ciò che concerne i partiti, siamo ben coscienti di costatare che delle generazioni di immigrati hanno tentato di collaborare con essi, ma senza risultato. Al contrario, i grandi partiti, di destra come di sinistra, hanno fatto delle politiche sempre di più contrarie ai nostri interessi. Quanto alle organizzazioni più piccole a sinistra, esse non hanno mai considerato che le nostre preoccupazioni meritavano di occupare uno spazio centrale nel loro intervento. E’ significativo d’altra parte che in nessuna delle formazioni politiche esistenti, le popolazioni provenienti dall’immigrazione coloniale sono rappresentate in proporzione alla loro realtà sociale, per non parlare della quasi totale assenza degli organi direttivi. E se c’è oggi un leggero miglioramento, molto ambivalente, a dire il vero, è dovuto all’influenza dei quartieri periferici, e, più recentemente, a “ l’effetto Obama “. Come possiamo in questa situazione, sentirci rappresentati da questi partiti? Questo evidentemente è impossibile. Tu hai sottolineato che per lungo tempo gli immigrati e i loro figli si sono rivolti verso la sinistra o l’estrema sinistra ma, per essere più precisi, bisognerebbe dire che, per molto tempo, e d’altronde questo è ancora il caso, la maggioranza degli immigrati d’origine coloniale e i loro figli hanno votato per la sinistra. Ciò non significa però che essi si riconoscano massicciamente nella sinistra e nelle sue battaglie, ma più prosaicamente la sinistra, o almeno essi hanno pensato che non conducessero le politiche razziste vantate dalla destra. Ciò che poi si è verificato un’illusione. Inoltre dopo le ultime elezioni presidenziali si è verificato che numerosi francesi immigrati hanno votato per il “ Modem[2] ”, semplicemente perché sulle questioni che loro interessavano, in primo luogo il PS, non faceva meglio che l’ UMP, e tanto valeva,perché non provare con il Modem? In alcun caso, non si può immaginare che essi si siano sentiti rappresentati dal Modem. L’incapacità di tutti questi partiti a rappresentarci non è solamente una circostanza. Se la loro politica tiene conto dei nostri bisogni solo occasionalmente, se noi non abbiamo spazio, è perché, come l’insieme delle istituzioni di questo paese, sono parte integrante del sistema razziale. Loro si combattono ma partecipano tutte, a diversi gradi e secondo le modalità più o meno complesse, a preservare il privilegio “ bianco”. La struttura apparente del campo politico tra destra e sinistra maschera l’opposizione razziale nel momento stesso in cui contribuisce a riprodurla. Se noi vogliamo fondare un partito indigeno è giustamente per strappare questo velo, e per far apparire sulla scena pubblica quest’altro conflitto che è la questione razziale. Il motivo per cui vogliamo costituire i nostri partiti sta nel fatto che, chi fonda la politica propriamente indigena, è l’oppressione razziale. E una delle sue incarnazioni è l’assimilazione repubblicana di cui i partiti esistenti ne sono allo stesso tempo gli strumenti. Infatti, questi partiti sono più o meno concepiti sul modello repubblicano: al loro interno, non ci sono ufficialmente che degli individui o dei cittadini astratti, nebulosi, privi di determinazione. In una frangia della sinistra, ed è vero, si è tenuto conto che un individuo, in effetti, è socialmente determinato a difendere il suo posto nel processo del lavoro, quindi le differenti forme dei partiti dei lavoratori e della classe operaia, ma non ha nascosto questa potente determinazione sociale che è la posizione nel processo di riproduzione di quei gruppi statutari che io chiamo le razze sociali e che risultano dalla gerarchizzazione tra bianchi e non bianchi, prodotta dalle differenti forme coloniali, ma anche per le resistenze che essa genera. Questo occultamento porta non solo a concepire il ruolo di questi partiti nel preservare la supremazia bianca, ma parimenti a non integrare al loro interno, nelle loro stesse modalità di strutturazione, la realtà dei collettivi sociali, avendo particolare attenzione in termini per esempio di cultura, di rapporti con la storia, la nazione ecc. I partiti bianchi non possono risolvere questo problema perché si sono forgiati al modello repubblicano, stile giacobino, rinforzato dalla tradizione assimilazioni sta coloniale. Appena noi evochiamo tale problema, ci si presenta il fantasma del comunitarismo tipo anglosassone. Io non credo che questo modello ci interessi, non ha niente a che vedere con la vastità delle discriminazioni razziali in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, ma comunque, mi sembra sempre più chiaro che il modello repubblicano francese debba essere superato,beninteso nel senso che suggerisce Sarkozy in alcuni suoi discorsi. Il problema si pone per noi nello stesso concetto di partito che vogliamo costruire. In effetti, siamo coscienti che gli indigeni, differenti per la loro storia ma anche per le politiche fatte contro di loro, essi stessi sono inseriti in modi differenti sia nella gerarchia che nella società. Tale situazione potrebbe riflettersi nel partito che contiamo fondare. Perciò riflettiamo ad una forma di partito che tenda a tener conto di queste differenze, articolandosi nel suo funzionamento, nell’elaborazione di richieste di spazi in cui riunire tutti i militanti legati dalla loro condizione di indigeni e di spazi in cui organizzare come collettività i vari componenti del nuovo indigenato sulla base delle particolarità storiche e culturali rivendicate.
3 ) Chi dice partito dice progetto politico e non solamente l’affermazione di un modello di società ideale…….
Effettivamente, come ho già affermato, noi abbiamo un sogno ma non ci accontentiamo di sognare. Sappiamo bene che il processo sarà lungo e duro, che bisognerà convincerci, lottare, spesso negoziare. Questo è proprio dell’azione politica; e ancora di più per noi che costituiamo una minoranza sociale. E per questo, io penso che bisognerà sostenerci su una sorta di programma intermedio che non sia un repertorio di rivendicazioni immediate del tipo “ sindacale-indigeno” ma che tracci le linee guida di un processo riformatore capace di intraprendere un processo de coloniale, vale a dire, di arrestare e aprire un varco nelle logiche linguistiche razziali dello stato e della società francese integrando il tutto con domande politiche oltre a quelle che riguardano particolarmente noi, e di vedere, allo stesso tempo, chi terrà conto delle inquietudini degli “altri” i bianchi. Senza rinunciare a noi stessi si tratterà attraverso questo programma intermedio, di dotarci di uno strumento evolutivo destinato a riunire gli indigeni e gli abitanti dei quartieri popolari, spesso anch’essi indigenizzati, a costruire dei legami quali partner e cooperazione, puntuali e durevoli, con altre forze, ivi comprese le bianche, di sviluppare una strategia per costruire, nel lungo periodo, una maggioranza politica decoloniale, radicata in tutte le categorie svantaggiate della popolazione. Insomma, si tratterà di disegnare un processo che non sia incantatore ma capace di innestare dei consensi dinamici – io intendo a quel punto che i conflitti e i consensi siano le due facce di una stessa medaglia, tracciando dei cerchi sempre più grandi della società francese attorno a un progetto decoloniale. Sappiamo bene che la nostra battaglia sarà lunga, ma noi non abbiamo paura del tempo.
4) Ci puoi dire di più sul contenuto di questo programma intermedio?
Sicuramente posso fare qualche puntualizzazione generica, ma non avrà senso senza la traduzione in proposte concrete. Vorrei dire, per cominciare, che le disuguaglianze razziali sono prodotte da molteplici logiche sociali, culturali, amministrative e politiche, generate, d’altra parte, dalla colonizzazione e dall’imperialismo; di conseguenza, una politica che non comprendesse tutti i livelli dove si radica questo razzismo istituzionale sarebbe necessariamente condannata all’insuccesso. Delle misure contro le discriminazioni del lavoro, per esempio, non riuscirebbero senza una trasformazione delle relazioni di cittadinanza o senza le imprese, una riforma culturale, un nuovo approccio all’immigrazione, o una revisione profonda dell’ordine repubblicano. E’ necessario quindi un” piano globale “ contro le ineguaglianze razziali. E’ indispensabile pensare a dei meccanismi che fermino le logiche di razzismo, alle istanze al vertice delle autorità esecutive che avrebbero il compito di sorvegliare sulla loro applicazione, di permettere loro il declino in tutti i settori dell’azione pubblica, ma allo stesso tempo, di esercitare un potere di costrizione- e non solo di incitamento- sul settore privato. Un tale piano dovrebbe, tra le altre cose, includere l’insegnamento. La scuola è veramente un’istituzione fondamentale nella costruzione della coscienza collettiva e della nazione. Non è sufficiente inserire qualche riga sulla memoria della schiavitù per far cambiare ai francesi l’idea che si fanno di loro stessi e della Francia. Per stravolgere l’eurocentrismo bianco. bisognerebbe rivedere da cima a fondo i programmi di insegnamento nelle diverse discipline scolastiche. Più in generale è nell’insieme della politica culturale che bisogna intervenire. C’è anche la politica dell’immigrazione, la questione della laicità e i rapporti con i “ Dom Tom”, la politica internazionale della Francia, soprattutto riguardo alle sue vecchie colonie o della questione palestinese. A questi livelli ci sono delle logiche che creano razzismo.
Ma è chiaro perché qui vorrei insistere sulla cittadinanza. Il sistema indigeno contemporaneo è soprattutto il diniego della cittadinanza. E’ sorprendente constatare che in tutti i progetti che sono stati presentati ufficialmente, le istanze inoltrate di negazione o di controllare l’applicazione delle misure anti-discriminatorie sono quelle stesse che a diverso grado partecipano alla riproduzione delle ineguaglianze razziali.
Per esempio chi si può attendere una negoziazione tra i capi di imprese e i maggiori sindacati, essi stessi preoccupati di difendere principalmente i privilegi dei lavoratori bianchi? Si potrebbero immaginare al contrario delle norme che garantissero il coinvolgimento di coloro che sono discriminati nel controllo delle politiche pubbliche e dei settori privati. Perché per esempio, non prevedere, nelle imprese come nella funzione pubblica, il controllo del reclutamento, delle promozioni, dell0organizzazione del lavoro, con istanze rappresentative dei salariati indigeni e delle organizzazioni antirazziste? . Si possono concepire ugualmente delle disposizioni negli organismi che si occupano delle cose sociali. Più in generale, non ci sarebbe progresso nella lotta contro il razzismo istituzionale se coloro che sono le principali vittime vengono escluse dalle sfere di controllo, di decisione e di progettualità. Essi vi devono essere presenti in tutta autonomia. Tutto ciò pone evidentementeil problema della loro auto-organizzazione ma anche quello immenso della loro rappresentanza politica nei settori istituzionali. Fin qui il problema si è posto solo in termini di integrazione nei partiti “bianchi”: come si può fare per aprire questi partiti alla diversità? Non sono sicuro che questo sia un buon argomento. A mio avviso ci sono delle misure da prendere per facilitare l’accesso degli indigeni alle istanze di rappresentatività e di autorità. Si è parlato di sistema elettorale proporzionale, e ciò, in effetti, sarebbe una buona cosa. Dalle numerose riforme che andassero in tal senso, potrebbero essere messe in opera a vari livelli della società politica per ciò che si sa veramente rappresentativa dei diversi componenti della popolazione. Noi presenteremo quella che riterremo più importante. E’ necessaria anche una maggior revisione istituzionale, consapevoli che non avverrà senza urtare i repubblicani ortodossi. Essa tenderà veramente a dare corpo al multiculturalismo. Non basta dire “ sì, la Francia è multiculturale”, è necessario sviluppare anche i dispositivi che permettano alle minoranze culturali di esistere nello stato, come corpo collettivo, e avere veramente voce nell’esporre le questioni che li riguardano in modo particolare. Così le correnti regionaliste non mancano di chiedere i diritti collettivi per le minoranze territoriali vecchie, ma, stranamente, essi non considerano che una tale rivendicazione possa essere ugualmente legittima per le nuove minoranze indigene. In questa prospettiva sarà importante garantire anche i dispositivi che garantiscano i loro diritti individuali; non è questione di assegnare chicchessia ad una minoranza contro la sua volontà. L’insieme di queste questioni, poste qui in disordine, fa naturalmente parte del lavoro programmatico che abbiamo incominciato. Detto questo, non bisogna che queste questioni siano poste unicamente da noi. Esse dovrebbero essere al centro dell’agenda di tutti coloro che considerano l’imperialismo ed il razzismo come cause delle barbarie passate e ancora attuali.
5 ) Voi parlate di "lotte delle razze sociali", di "indigeni", di un "noi" al quale opponete un "voi", di "altri", di "non indigeni", i "bianchi", i "souchiens[3] " ecc. Questa lettura dei rapporti sociali in termini di categorie "identitarie" non è troppo rigido? Non temete che queste categorie impediscano le convergenze attorno a questo programma identitario?
Ciò che potrebbe impedire tali convergenze, non sono le categorie d’analisi o il fatto di nominare esplicitamente ciò che in generale si accorda di tacere, nell’occorrenza la divisione razziale che attraversa l’insieme della società francese, compresi gli strati popolari. E’ la stessa divisione razziale, sono i privilegi spesso socio economici , sempre simbolici, culturali,politici di cui beneficiano i bianchi-europei-cristiani,i quali costituiscono l’ostacolo reale a queste convergenze. Quando parliamo di razze sociali, sottolineiamo solo che il colonialismo-imperialismo costruisce dei gruppi sociali gerarchizzati in virtù di come sono definiti, bianchi-europei-cristiani o meno. Al di là di questa forma di dominazione globalizzata e delle resistenze che suscita, le razze non sono di esistenza storica. Di conseguenza, quando parliamo di indigeni, di bianchi o di razze sociali, non si tratta assolutamente di categorie identitarie, secondo la tua espressione, ma di un rapporto sociale coloniale. Ma le identità sono anche dei rapporti sociali nella loro dimensione culturale e simbolica, e queste identità sono oggi spesso rapporti sociali di razze. Ci sono delle identità dominanti e identità dominate che, sebbene esse stesse riflettano le identità dominanti, possono costituire delle leve di resistenza alla dominazione. Come movimento politico, questa questione identitaria, ci interessa dal punto di vista della lotta coloniale. Essa dovrebbe interessare tutti quelli che si definiscono antirazzisti e anti imperialisti. Mentre la sinistra non riconosce la realtà dei privilegi bianchi, compreso nel piano identitario, essa potrà gettare tanti << lavoratori francesi immigrati, lo stesso padrone, la stessa lotta>>, ciò sarà vento e solo vento, o peggio ancora, una forma come un’altra di subordinazione degli immigrati e dei loro figli al gioco proprio dei lavoratori bianchi. Sgombrare il terreno per le future convergenze esige di accettare il mondo così com’è, anche se questo può sembrare sgradevole ad alcuni. Questo è ciò che tentiamo di fare. Senza trascurare le altre fratture sociali, le categorie che utilizziamo cercano di intraprendere la vera vita, senza le false sembianze dell’ideologia repubblicana. Che talvolta noi schematizziamo a nostra volta la situazione o che utilizziamo delle formule troppo crude agli occhi di taluni, per prima cosa ci fa sentire bene, poi apre un dibattito molto utile. Si è visto, per esempio, con il documento l’Appel des indigene, che non sembra più scandaloso dopo aver sollevato numerose controversie che hanno finito per integrare la riflessione collettiva.
6 ) Pensi che un giorno sia possibile un’alleanza tra voi e la sinistra radicale?
La questione posta è, più in generale, quella dei rapporti che potremmo stabilire con altre formazioni politiche nella prospettiva di costituire questa maggioranza decoloniale a cui noi aspiriamo. E’ un movimento che si iscrive nel tempo e, probabilmente, nella scacchiera politica che sarà ben diversa da ciò che oggi noi conosciamo. Salvo poi a pensare ad una logica binaria, la realtà dei conflitti razziali non rende assurde tutte le convergenze. Nonostante le opposizioni reali, ci sono evidentemente degli interessi comuni nei ceti popolari bianchi e indigeni, che potrebbero permettere di negoziare delle alleanze. E’ ,in ogni caso, la scommessa che noi facciamo. Pensare il contrario ci condurrebbe, d’altronde, ad un “ impasse” strategica; l’obiettivo di una maggioranza politica decoloniale in Francia non sarebbe che un’utopia. La nostra priorità oggi è tuttavia di compattare gli indigeni e di costruire la loro indipendenza politica, e, quando giungerà il momento, io credo che ci saremo aperti a tutte le forze che rispetteranno la nostra autonomia e si impegneranno in una prospettiva coloniale reale e non in maniera intermittente. Non abbiamo un “ a priori” ideologico nel modo di esaminare le nostre eventuali alleanze, senza forma di cooperazione puntuale e più duratura. Esse sono determinate dalla loro capacità di portare avanti la nostra battaglia. Non chiediamo alle organizzazioni della sinistra radicale di condividere i nostri schemi di analisi. Sappiamo perfettamente che un bianco di sinistra si offende quando noi lo assegniamo alla parte dei dominanti, ciò che noi speriamo, ed è un accordo su proposte politiche, sull’impegno a trattare, sulle riforme in cui impegnarsi. Ciò che noi pretendiamo è il rispetto della nostra autonomia. Siamo ancora lontani.
Aggiungerei che si può avere separazione tra gli imperativi breve termine o su scala locale e gli imperativi a lungo termine e su scala nazionale. Prendiamo un esempio: i detti << statistiche etniche[4] >> che sono stati oggetto di violenti dibattiti all’inizio del 2009, quando Yazid Sabeg è stato nominato Commissario della diversità. Questo è soggetto di controversia che conferma le distanze tra sinistra e destra. Un altro esempio: si può lanciare la pietra agli elettori provenienti dall’immigrazione che, un po’ ovunque, votano contro un candidato di sinistra che organizza il gemellaggio della sua città con una città israeliana? O ancora: un sindaco comunista moltiplica le manovre per impedire la costruzione di una moschea nel suo comune, credete che sia possibile denunciare gli elettori musulmani che votassero a favore del candidato di destra perché si impegna a far concedere le autorizzazioni per la costruzione di tale moschea? Tutti questi esempi illustrano a loro volta che l’opposizione destra – sinistra, a oggi, non ricuce le separazioni razziale. In altri termini, la sinistra, anche quella radicale, non è, contrariamente a quanto si crede, sinonimo di antirazzismo e dovrà cambiare, se essa vuole essere considerata come partner credibile agli occhi della popolazione proveniente dalla colonizzazione. Quanto a noi, è chiaro che uno degli scopi maggiori alla formazione di un partito politico indigeno, che agisca a livello nazionale, sarà di combinare degli imperativi multipli: non si può più essere prigionieri dell’opposizione destra-sinistra, avere la capacità di acquisire una politica indipendente ma anche articolare le esigenze congiunturali o locali con le nostre prospettive de coloniali sul lungo termine. A lungo termine, spero che si verifichino le condizioni per progettare << un ricompattamento >> decoloniale, capace di prendere il potere perché tale è l’obiettivo di un partito politico. Se la sinistra radicale si impegna realmente in questo percorso tanto meglio. Sarà necessario fare una rivoluzione culturale e comprendere specialmente l’importanza che rivestono per noi i problemi che ai loro occhi non sono secondari, peggio, diversivi. Ne va anche della questione dell’Islam. In particolare, perché so molto bene che fa male. La sinistra radicale si mobiliterà con noi, contro l’islamofobia, per l’abrogazione della legge sul velo e, più in generale, affinchè i musulmani possano beneficiare dei diritti equivalenti agli altri culti? Altra cosa: il problema della storia e della memoria, per noi esso è fondamentale. Quando si ha una storia a priori dominante si può fare un bilancio o rigettarla in parte o totalmente come referenza identitaria; quando si toglie una storia, com’è nel nostro caso, che questa privazione è una delle forme di soppressione subita, bisogna prima riconquistarla. E il ruolo della sinistra radicale è di sostenerci in questa impresa e non denunciare i nostri miti reazionari. Il controllo della storia è, in effetti, una questione essenzialmente politica. Essa è al centro della costituzione nazionale francese come nazione imperiale e razziale.
Vi citerò un passagio di un saggio “ La diversità lontre l’ègalitè” ed. Raison d’agir, 2009, tipico dell’unità della sinistra radicale. L’autore, un americano di nome Walter Benn Michaels, che non si disturba, si fa per dire, pur di deformare le nostre tesi, si appoggia, ad un certo punto a un romanzo di Leslie Marmon Silko intitolato “ Almanac of the Dead.” Racconta la storia di un comunista cubano che somiglia molto alla sinistra radicale in Francia: il cubano passa il suo tempo a spiegare loro che sono stati sfruttati e che dovrebbero entrare in lotta contro il capitalismo; gli indiani passano il loro tempo a spiegare che ciò contro cui vogliono lottare è il popolo bianco. Quando il marxista si lancia una volta di troppo in una diatriba sulle malefatte della proprietà privata, rifiutano di tacere per ascoltare lui parlare della loro eredità ( i massacri, le spogliazioni, l’assimilazione forzata) lo attaccano per “ crimini contro la loro storia". Vi dico subito io sono dalla parte dell’indiano. Walter Benn Michaels è evidentemente scandalizzato da tale ignominia. Per lui questi selvaggi invaghiti da emozioni irrazionali che rifiutano di capire la voce della ragione, interrompono la parola di un valoroso comunista sono dei contro- rivoluzionari. Per me il comunista si comporta come un colonialista di sinistra. Io riconosco che spesso, sono stato tentato di picchiare in testa ad un militante di estrema sinistra che si sforzava di spiegarmi che le mie rivendicazioni “ identitarie” e “ comunitarie” erano false, un concentrato reazionario e che dovevo elevarmi alla globalità della lotta di classe. Per concepire delle alleanze solide e durature bisognerebbe che la sinistra radicale rompa con il freddo materialismo che le impedisce di capire il bisogno “ apparentemente universale “ di storia, di identità, di spiritualità e di dignità, una dignità che non sia solo la dignità di consumare, temo che la sinistra radicale non afferri bene ciò che mobilita le classi popolari bianche. I proletari francesi, che hanno votato per Sarkozy non si aspettavano da lui che aumentasse il loro salario. Hanno votato per dei “ valori”, qualunque cosa si possa pensare di questi valori. E dei valori, non si oppone 1.500 euro ma altri valori; si oppone la politica e la cultura. Alla politica Sarkoziana di “ l’identità nazionale non ci si può più accontentare di opporre un internazionalismo universalista e uniformi sta ( e ) dal nostro punto di vista molto euro -centrista.
Bisogna trovare altre risposte. Sono convinto che la presenza ormai massiccia in Francia di una popolazione oppressa culturalmente possa aiutare a rivisitare la riflessione su questo soggetto. Credo veramente che la sinistra radicale abbia molto da apprendere dai movimenti indigeni perché essi sanno dallo statuto che il loro intanto quanto discendenti da colonizzati stritolati nella loro identità ,che la politica non si può ridurre alla questione socio economica.
Tradotto da Pierangela Contini.
Note a cura dei traduttori
[1] La nozione di indigeni qui utilizzata, ha una particolare referenza nella storia coloniale francese. L’impero francese utilizzava il termine indigeni per riferirisi ai soggetti coloniali nelle loro colonie in varie parti del mondo. Il movimento conosciuto come “Movimento degli indigeni della Repubblica”, è principalmente composto da giovani francesi di origine africana, araba, antilliana, nati e cresciuti in Francia e che si trovano a sperimentare l’esperienza del razzismo coloniale e la sua conseguente marginazione e sfruttamento sociale
[2] Fa riferimento alla formazione politica creata dal politico francese di centro-destra François Bayrou che si candidó alle ultime presidenziali del 2007. Bayrou ha occupato un posto importante nella elezioni, arrivando terzo con il 18,57% dei voti dopo Ségolène Royal (25,87 %) del partito socialista e di Nicolas Sarkozy (31,18 %), della Unione per la Maggiornaza Presidenziale (UMP). Durante la campagna, Bayrou ricevette l’appoggio, tra gli altri, di Azouz Begag, ministro del governo della destra di Villepin e figlio di migranti algerini.
[3] “Souchiens” è un aggettivo coniato a partire dalla espressione francese “français de souche” che si può tradurre come ‘francese puro’ , inventata 27 anni fa da Le Pen, dirigente fascista e razzista del partito conosicuto come Fronte Nazionale. Recuperata da molti politici dei più diversi partiti, l’espressione si è normalizzata ed è oggi ampiamente utilizzata nel vocabolario político francese.
[4] Nel modello repubblicano francese è proibito l’uso nel censimento, delle statistiche etniche e razziali. Per questa ragione lo stato non dispone di dati ufficiali sul profilo socio-economico dei diversi gruppi etnico-razziali in Francia.
Non essendoci evidenza delle discriminazioni etniche e razziali, i gruppi coinvolti non vedono legittimate le loro rivendicazioni anti-razziste. Il movimento degli indigeni della Repubblica ha manifestato il suo consenso per l’utilizzo di domande etnico/razziali nel censimento della popolazione in Francia.